La fotografia di Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò

Testo Ridotto: 

Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò s’innamorò presto della fotografia.  Il terremoto del 1908 uccise la sua famiglia ma lasciò integra la sua macchina fotografica. A diciassette anni scriveva al cugino Lucio Piccolo dei suoi progressi, incurante di tutto il resto. L’agiata condizione famigliare gli consentì di vivere questa passione senza risparmio di forze intellettuali e materiali. Di fatto, ottimi risultati ottenne in questo campo con svariati riconoscimenti di livello nazionale. 

Testo Medio: 

Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò s’innamorò presto della fotografia.  Il terremoto del 1908 uccise la sua famiglia ma lasciò integra la sua macchina fotografica. A diciassette anni scriveva al cugino Lucio Piccolo dei suoi progressi, incurante di tutto il resto. L’agiata condizione famigliare gli consentì di vivere questa passione senza risparmio di forze intellettuali e materiali. Di fatto, ottimi risultati ottenne in questo campo con svariati riconoscimenti di livello nazionale. Collaborò con la rivista milanese del Progresso Fotografico, che ospitò sulle proprie pagine molti suoi scatti e alcuni articoli. In uno scritto del 1937 Filippo Cianciàfara così esprime i caratteri generali del suo lavoro: “Io con il mio apparecchio vado a caccia di immagini e non di quei soggetti cosiddetti moderni, che devono colpire per loro austerità, o per la loro ricercata originalità; non mi piace fotografare il bottone dell’interruttore alla parete del personaggio preso dal sotto in su, secondo il punto di vista del cane, o peggio ancora del topo, o visto da tergo intento in un lavoro incomprensibile, ma mi piace cogliere l’atteggiamento sbarazzino del bimbo per istrada, o fissare l’immagine di quell’angolo cittadino o campagnolo al quale nessuno aveva mai fatto caso, o altre scene ed ambienti che abbiano un contenuto veramente “artistico”. […] Quante volte il medesimo paesaggio è stato reso in modo assolutamente diverso da artisti di vario temperamento, con colori ad olio ad acquerello, o ancora incisi dall’acquaforte o col bulino! Così fotografi diversi sanno dare al medesimo soggetto aspetti diversissimi secondo il proprio modo di lavorare variamente impiegando quei mezzi tecnici che sono a loro disposizione, dall’obiettivo al materiale sensibile”[1]. Da queste parole viene fuori il ritratto nitido di un fotografo moderno la cui elaborazione concettuale e teorica è pari al ricco lavoro di sperimentazione di tecniche e temi della sua fotografia. Cianciàfara fotografa di tutto, dai ritratti delle donne della sua vita, ai piatti da cucina, le navi del porto, gli uomini sui tralicci, i tubi d’acciaio della Mannesmann

 


[1] Filippo Cianciafara Tasca di Cutò, L’arte fotografica e la realtà, in Progresso Fotografico del dicembre 1937, riportato su gli Ultimi Gattopardi, a cura di Francesco Gallo Mazzeo, Edizioni Di Passaggio, 2012, p. 179.

 

Testo Esteso: 

Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò s’innamorò presto della fotografia.  Il terremoto del 1908 uccise la sua famiglia ma lasciò integra la sua macchina fotografica. A diciassette anni scriveva al cugino Lucio Piccolo dei suoi progressi, incurante di tutto il resto. L’agiata condizione famigliare gli consentì di vivere questa passione senza risparmio di forze intellettuali e materiali. Di fatto, ottimi risultati ottenne in questo campo con svariati riconoscimenti di livello nazionale. Collaborò con la rivista milanese del Progresso Fotografico, che ospitò sulle proprie pagine molti suoi scatti e alcuni articoli. In uno scritto del 1937 Filippo Cianciàfara così esprime i caratteri generali del suo lavoro: “Io con il mio apparecchio vado a caccia di immagini e non di quei soggetti cosiddetti moderni, che devono colpire per loro austerità, o per la loro ricercata originalità; non mi piace fotografare il bottone dell’interruttore alla parete del personaggio preso dal sotto in su, secondo il punto di vista del cane, o peggio ancora del topo, o visto da tergo intento in un lavoro incomprensibile, ma mi piace cogliere l’atteggiamento sbarazzino del bimbo per istrada, o fissare l’immagine di quell’angolo cittadino o campagnolo al quale nessuno aveva mai fatto caso, o altre scene ed ambienti che abbiano un contenuto veramente “artistico”. […] Quante volte il medesimo paesaggio è stato reso in modo assolutamente diverso da artisti di vario temperamento, con colori ad olio ad acquerello, o ancora incisi dall’acquaforte o col bulino! Così fotografi diversi sanno dare al medesimo soggetto aspetti diversissimi secondo il proprio modo di lavorare variamente impiegando quei mezzi tecnici che sono a loro disposizione, dall’obiettivo al materiale sensibile”[1]. Da queste parole viene fuori il ritratto nitido di un fotografo moderno la cui elaborazione concettuale e teorica è pari al ricco lavoro di sperimentazione di tecniche e temi della sua fotografia. Cianciàfara fotografa di tutto, dai ritratti delle donne della sua vita, ai piatti da cucina, le navi del porto, gli uomini sui tralicci, i tubi d’acciaio della Mannesmann.  Era interessato all’aspetto alchemico, pioneristico, della stampa fotografica, il suo lavoro fu sempre dotato di un altissimo livello meticolosa attenzione. Considerava la fotografia un’arte, fatto non del tutto scontato per l’epoca e per il suo aristocratico ambiente sociale. Il dialogo con le discipline figurative, infatti, è evidente e costante in tutta la sua opera. In Leonardesca (1933-34) Cianciàfara cerca di emulare l’arcinoto effetto sfumato della pittura del Da Vinci, in parte riuscendovi anche, aiutato dalla fisionomia stessa della donna effigiata. La sua Prore alla catena (1935), divenuta nel 37’ copertina di Progresso Fotografico, potrebbe essere stata scatta a New York come a Barcellona o a Messina. Il suo occhio coglie nella serialità, nella ripetizione sistematica degli elementi, uno degli aspetti principali della modernità, epoca cui appartiene totalmente la sua fotografia. La materia delle sue foto cambia con il passare degli anni e l’aggiornamento tecnico dell’equipaggiamento fotografico, tuttavia negli anni ’30 la sua creatività è particolarmente ispirata e esplora soluzioni molteplici. L’arte è nell’occhio del fotografo, egli guarda alla realtà con la consapevolezza di rappresentarla e non semplicemente di coglierla.  Non solo la pittura è presente nelle sue “nature morte”, Mistiscismo e Materialismo (1932), ma anche la plastica volumetria della scultura può cogliersi in Controvento (1932), opere che già nel titolo rivelano una ricerca oltre il mero racconto oggettuale. Fotografo e artista oggi poco conosciuto al di fuori del ristretto circuito dei conoscitori siciliani, Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò è stato uno dei protagonisti della fotografia italiana del terzo decennio del Novecento. Il suo lavoro è stato recentemente oggetto di una monumentale monografia curata da Andrea Reteuna per le edizioni Magika che ne ha svelato i molteplici aspetti, per certi versi bizzarri ed estrosi, restituendo il profilo peculiare di un grande intellettuale ed artista siciliano.

 


[1] Filippo Cianciafara Tasca di Cutò, L’arte fotografica e la realtà, in Progresso Fotografico del dicembre 1937, riportato su gli Ultimi Gattopardi, a cura di Francesco Gallo Mazzeo, Edizioni Di Passaggio, 2012, p. 179.

 

Galleria Immagini: 
Gallerie Immagini Secondarie: 

Galleria Foto Filippo Cianciafara Tasca di Cutò

  • Filippo Cianciafara Tasca di Cutò: Follia, 1938, 25 x 30 cm.
  • Filippo Cianciafara Tasca di Cutò: La paglietta verde, 1961, 13 x 18 cm.
  • Filippo Cianciafara Tasca di Cutò: Prore alla catena, 1935, 24, 7 x 30, 4 cm.
  • Filippo Cianciafara Tasca di Cutò: Plenilunio, 1928, 19 x 24 cm.
  • Filippo Cianciafara Tasca di Cutò: I fiori di nicoletta, 1952, 13 x 18 cm.
  • Filippo Cianciafara Tasca di Cutò: Ritratto di Maria Antonia, 1919, 20 x 25 cm.
Credits: 
Edizioni di Passaggio
Data Luogo Opera: 
Tag Principali: 
QR Code: 

Tag Tipo Opera: