Il libro di Giuseppe Longo, pubblicato da Mursia nel 1970, traccia un'immagine della Sicilia a partire dai ricordi dell'infanzia e della fanciullezza, trascorsi sulle rive dello Stretto. Oltre al filtro della memoria e della nostalgia, agisce ne L'isola perduta la prima vocazione di Longo, ovvero il giornalismo: il nucleo dell'opera si può infatti rintracciare nel lungo scritto Viaggio in Sicilia, stampato nel novembre del 1958 su «L'osservatorio politico letterario», la rivista da lui fondata e diretta a Roma nel 1955, ma anche in altri articoli e reportage dell’autore.
Il libro di Giuseppe Longo, pubblicato da Mursia nel 1970, traccia un'immagine della Sicilia a partire dai ricordi dell'infanzia e della fanciullezza, trascorsi sulle rive dello Stretto. Oltre al filtro della memoria e della nostalgia, agisce ne L'isola perduta la prima vocazione di Longo, ovvero il giornalismo: il nucleo dell'opera si può infatti rintracciare nel lungo scritto Viaggio in Sicilia, stampato nel novembre del 1958 su «L'osservatorio politico letterario», la rivista da lui fondata e diretta a Roma nel 1955, ma anche in altri articoli e reportage dell’autore. Legato alle proprie radici, Longo dedica alla terra natale moltissime pagine, attraverso sia la scrittura saggistica che la narrativa e la poesia, e, come nel precedente La Sicilia è un’isola (1962), unisce all’amore per quel mondo perduto, che aveva lasciato nel 1939 per proseguire altrove la propria carriera, uno sguardo di lucido disincanto, che gli consente di cogliere anche le contraddizioni di una condizione come quella isolana, stretta tra appartenenza e desiderio d’evasione. La concretezza e le sfaccettature molteplici della vita siciliana emergono, nel libro, evocando insieme ai ricordi una galleria molto ampia di personaggi, tratteggiati nella quotidianità di abitudini e costumi oppure appartenenti all’orizzonte della leggenda, specchio di una realtà sociologica ed esistenziale indagata a fondo. Il viaggio nell’isola è così un itinerario che affronta i lati più oscuri della sicilianità e, insieme, la sua ricchezza, descritta anche ricorrendo ai letterati che ne restituiscono il profilo, da Verga e Capuana a De Roberto e Pirandello, passando per Tomasi di Lampedusa o Brancati. «Sono siciliano. Non me ne vanto e non me ne dolgo», scrive Longo. «Alla stessa maniera avrei potuto essere romagnolo o norvegese. Me porto con me questa mia tristezza di non poter essere né universale né cittadino del mondo, finché esistano barriere fra Stato e Stato, fra uomo e uomo. Noi siciliani siamo isole, questo sì. E perché dovrei maledire d'essere così nettamente delimitato? Che forse è più divertente essere penisola? Il mare ci circonda, il mare degli uomini».
Il libro di Giuseppe Longo, pubblicato da Mursia nel 1970, traccia un'immagine della Sicilia a partire dai ricordi dell'infanzia e dell’adolescenza, trascorsi sulle rive dello Stretto. Oltre al filtro della memoria e della nostalgia, agisce ne L'isola perduta la prima vocazione di Longo, ovvero il giornalismo: il nucleo dell'opera si può infatti rintracciare nel lungo scritto Viaggio in Sicilia, stampato nel novembre del 1958 su «L'osservatorio politico letterario», la rivista da lui fondata e diretta a Roma nel 1955, ma anche in altri articoli e reportage dell’autore. Legato alle proprie radici, Longo dedica alla terra natale moltissime pagine, attraverso sia la scrittura saggistica che la narrativa e la poesia, e, come nel precedente La Sicilia è un’isola (1962), unisce all’amore per quel mondo perduto, che aveva lasciato nel 1939 per proseguire altrove la propria carriera, uno sguardo di lucido disincanto, che gli consente di cogliere anche le contraddizioni di una condizione come quella isolana, stretta tra appartenenza e desiderio d’evasione. Questa condizione, raccontata e condivisa dagli scrittori siciliani otto-novecenteschi, anche Longo l’aveva vissuta e sofferta sulla propria pelle, quando, dopo aver mosso i primi passi nel giornalismo proprio a Messina, si era trasferito a Roma dando avvio ad una brillante carriera che, dal quotidiano «Il Messaggero», lo avrebbe condotto ad altre prestigiose testate, contemporaneamente all’attività di poeta e narratore. Circa trent’anni dopo la sua partenza, l’autore torna così sui luoghi amati e perduti della fanciullezza, lasciando affiorare la memoria di un’età favolosa, quella dell’infanzia, e degli anni più complessi della giovinezza, sullo sfondo di una città, Messina, ancora duramente colpita dalle conseguenze del terribile sisma che, nel 1908, l’aveva completamente rasa al suolo. Il difficilissimo periodo della ricostruzione è affrontato da Longo, nato 17 mesi dopo quella ferita inferta all’intero corpo della città, anche in altri luoghi della propria produzione, verificando sempre come anche i caratteri psicologici dei suoi abitanti fossero necessariamente destinati a subire una mutazione profonda e irreversibile in seguito al dramma, tale da rendere Messina una sorta di isola nell’isola, con tratti peculiari rispetto al resto delle città siciliane. L’autobiografismo, in forma di ricordo, necessario fil rouge del volume («soltanto le memorie non invecchiano e sono le uniche parti di noi che riusciamo a conservare giovani») è accompagnato da un fedele piglio cronachistico, che trasfigura il dato personale per renderlo storico, a testimonianza di un’epoca fotografata fin dentro i suoi anfratti, non dunque come “cartolina” ma come universo vivo e palpitante, con i suoi splendori e le sue miserie. La concretezza e le sfaccettature molteplici della vita siciliana emergono, nel libro, evocando insieme ai ricordi una galleria molto ampia di personaggi, tratteggiati nella quotidianità di abitudini e costumi oppure appartenenti all’orizzonte della leggenda, specchio di una realtà sociologica ed esistenziale indagata a fondo. Il viaggio nell’isola è così un itinerario che affronta i lati più oscuri della sicilianità e, insieme, la sua ricchezza, descritta anche ricorrendo ai letterati che ne restituiscono il profilo, da Verga e Capuana a De Roberto e Pirandello, passando per Tomasi di Lampedusa o Brancati. «Sono siciliano. Non me ne vanto e non me ne dolgo», scrive Longo. «Alla stessa maniera avrei potuto essere romagnolo o norvegese. Me porto con me questa mia tristezza di non poter essere né universale né cittadino del mondo, finché esistano barriere fra Stato e Stato, fra uomo e uomo. Noi siciliani siamo isole, questo sì. E perché dovrei maledire d'essere così nettamente delimitato? Che forse è più divertente essere penisola? Il mare ci circonda, il mare degli uomini».