Giulio Conti: XVI, 2004.

Artista: 
Testo Ridotto: 

L’opera compare nella monografia “Ex Camera. Fotografie di Giulio Conti (1965 – 2005), prezioso contributo la cui pubblica presentazione venne incorniciata da una suggestiva mostra al Teatro Vittorio Emanuele II nel novembre del 2006.  Fotomontaggio realizzato con la computer grafica, l’immagine è una prova preziosa della acutezza della visione concettuale ed estetica di Conti.

Testo Medio: 

L’opera compare nella monografia “Ex Camera. Fotografie di Giulio Conti (1965 – 2005), prezioso contributo la cui pubblica presentazione venne incorniciata da una suggestiva mostra al Teatro Vittorio Emanuele II nel novembre del 2006.  Fotomontaggio realizzato con la computer grafica, l’immagine è una prova preziosa della acutezza della visione concettuale ed estetica di Conti. Come abilmente messo in luce da Luigi Giacobbe nel testo citato[1], l’immagine pur essendo frutto di un’elaborazione grafica ricalca la tecnica del collage praticata da Conti già negli anni ’70.  Non vi sono alterazioni cromatiche o luminose successive allo scatto, semplicemente quattro foto sono messe in dialogo secondo una visione concettuale tesa a rappresentare la percezione dell’esterno attraverso il finestrino posteriore di un auto.  Gli interni della macchina costituiscono una sorta di cornice in cui Conti cattura l’istante propizio: lo sguardo perplesso di un passante, prontamente colto per via del rosso della sua maglia, il capo chino di un giovane uomo che prosegue il suo cammino inconsapevole dell’obiettivo, cromaticamente e formalmente integrato con  l’interno dell’auto. Il finestrino è diventato una macchina fotografica alla seconda, un otturatore che  non può governare, che si muove continuamente all’interno di uno spazio anch’esso mobile. Passano i bus e i tram, che il fotografo coglie subito incastonandoli nel rettangolo magico secondo corrispondenze geometriche e sottili trasparenze. E’ un gioco alienante. La relazione è subita, lo sguardo ristretto.  Si muovono fuori uomini e cose che sembrano appartenere a un mondo diverso, distante e finto come una fotografia appesa alla parete. La lettura sarebbe forzata se XVI non potesse confrontarsi con gli altri scatti presenti nel catalogo.

 


[1] “Malgrado il dichiarato uso del mezzo informatico, Giulio Conti ha qui adottato i criteri medesimi che potevano essere utilizzati con le tecniche tradizionali negli anni Trenta o Settanta. Sfuggendo alle tentazioni miracolistiche della computer grafica, l’autore ha puntato più al senso che all’effetto, al racconto più che al proclama suggestivo, alla serialità come metafora del contemporaneo. Un campionario di Images Trouvees organizzate intorno ad una suggestione figurativa.”. 

 

Testo Esteso: 

L’opera compare nella monografia “Ex Camera. Fotografie di Giulio Conti (1965 – 2005), prezioso contributo la cui pubblica presentazione venne incorniciata da una suggestiva mostra al Teatro Vittorio Emanuele II nel novembre del 2006.  Fotomontaggio realizzato con la computer grafica, l’immagine è una prova preziosa della acutezza della visione concettuale ed estetica di Conti. Come abilmente messo in luce da Luigi Giacobbe nel testo citato[1], l’immagine pur essendo frutto di un’elaborazione grafica ricalca la tecnica del collage praticata da Conti già negli anni ’70.  Non vi sono alterazioni cromatiche o luminose successive allo scatto, semplicemente quattro foto sono messe in dialogo secondo una visione concettuale tesa a rappresentare la percezione dell’esterno attraverso il finestrino posteriore di un auto.  Gli interni della macchina costituiscono una sorta di cornice in cui Conti cattura l’istante propizio: lo sguardo perplesso di un passante, prontamente colto per via del rosso della sua maglia, il capo chino di un giovane uomo che prosegue il suo cammino inconsapevole dell’obiettivo, cromaticamente e formalmente integrato con  l’interno dell’auto. Il finestrino è diventato una macchina fotografica alla seconda, un otturatore che  non può governare, che si muove continuamente all’interno di uno spazio anch’esso mobile. Passano i bus e i tram, che il fotografo coglie subito incastonandoli nel rettangolo magico secondo corrispondenze geometriche e sottili trasparenze. E’ un gioco alienante. La relazione è subita, lo sguardo ristretto.  Si muovono fuori uomini e cose che sembrano appartenere a un mondo diverso, distante e finto come una fotografia appesa alla parete. La lettura sarebbe forzata se XVI non potesse confrontarsi con gli altri scatti presenti nel catalogo. Infatti, nella fase matura della sua carriera  Conti dirige la sua costante sperimentazione tecnica e formale verso i temi dell’estetica quotidiana, verso le manifestazioni “stradali” dell’alienazione contemporanea: i balconi, i cartelloni pubblicitari, le ossessive e claustrofobiche gallerie metropolitane. La città è il mondo di questo fotografo, le ossessioni dei suoi ritmi frenetici sono presenti pure in un altro foto/quadro: XLVI, dove, ironicamente, le auto che hanno invaso i monumenti romani  s’ingolfano accatastandosi l’una sull’altra mentre un uomo si allena goffamente sui sanpietrini, finalmente sgombri, della capitale.  XVI può essere anche considerato come la registrazione di un modo di percepire che è comune a miliardi di persone del mondo. Quel particolare modo di attraversare lo spazio urbano che le auto private consentono. Una fruizione comoda e veloce, domestica e accogliente quanto aliena e alienante, priva di quel repertorio infinito di suggestioni, sensazioni e sguardi possibili che il movimento e la carrozzeria dell’auto negano, aumentando quel senso di frustrazione e inimicizia che al semaforo trova lo sfogo di una nevrosi covata durante tutto il tragitto.   Conti ha lavorato tra Roma e Messina, città diversissime, ma per varie ragioni ancora profondamente carenti sotto il profilo della vivibilità. Senza inutili paragoni, entrambe godono di paesaggio urbano straordinario e di una ricchezza naturalistica incredibile. Tuttavia, l’una per la grandezza e la disorganizzazione, l’altra per i disastri urbanistici del Novecento, entrambe sono paradigma di un cattivo modo di percepire l’ambiente,  di abitarlo, di attraversarlo senza riuscire a costruire le relazioni che proprio nello sguardo umano, negli occhi di chi guarda e di chi è guardato trovano il loro punto d’origine fenomenologico. “Il passante, colui che attraversa lo spazio ambiguo del moderno, dotato di un occhio senza palpebre, spalancato costantemente sul nuovo che gli si para di fronte, ha la possibilità di vivere questa esperienza dell’ibridazione, di vedere il lato luminoso delle cose contemporaneamente al loro lato oscuro, la vita e la morte, l’eterno e il transitorio, la bellezza e l’orrore, propri di tutti gli ingredienti che compongono il mondo. E questa possibilità si radica dentro il suo corpo rendendolo consapevole di essere il contenitore di ambivalenza tanto da potersi narrare  come “il re di un paese piovoso”, ricco ma impotente, giovane e allo stesso tempo vecchissimo, come narra lo stesso Baudelaire. Il luogo della modernità è quello in cui le sensazioni s’intrecciano formando il nodo insolubile della contraddizione, in cui diventa urgente sapere che la duplicità è la stessa percepita da chi si dà il compito di raccontarla”[2].

 


[1] “Malgrado il dichiarato uso del mezzo informatico, Giulio Conti ha qui adottato i criteri medesimi che potevano essere utilizzati con le tecniche tradizionali negli anni Trenta o Settanta. Sfuggendo alle tentazioni miracolistiche della computer grafica, l’autore ha puntato più al senso che all’effetto, al racconto più che al proclama suggestivo, alla serialità come metafora del contemporaneo. Un campionario di Images Trouvees organizzate intorno ad una suggestione figurativa.”.

[2] Valeria Giordano, La metropoli e oltre, Maltemi, Roma, 2005, p. 36. 

 

Galleria Immagini: 
Gallerie Immagini Secondarie: 

Gallerie Opere Giulio Conti

  • Giulio Conti: XV, 1979, collage.
  • Giulio Conti: XXXIII, 2002, composizione digitale.
  • Giulio Conti: XLIV, 2003, composizione digitale.
  • Giulio Conti: XLVI, 2004, composizione digitale.
Credits: 
Courtesy Giulio Conti, Magika.
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