La scultura è stata presentata in occasione della mostra Volti e Risvolti tenutasi al Vittorio Emanuele nel dicembre 2006. Nel testo critico dell’evento, Lucio Barbera rivela la singolare prassi seguita da Brancato per realizzare la serie di volti di cui fa parte quest’opera. L’artista, infatti, scolpisce pietre recuperate dai cantieri, o scovate lungo gli arenili dei torrenti o semplicemente rinvenute per strada. Uno stile sintetico, insieme arcaico e moderno, modella la pietra, in questo caso arenaria, con effetti di grande eloquenza.
La scultura è stata presentata in occasione della mostra Volti e Risvolti tenutasi al Vittorio Emanuele nel dicembre 2006. Nel testo critico dell’evento, Lucio Barbera rivela la singolare prassi seguita da Brancato per realizzare la serie di volti di cui fa parte quest’opera. L’artista, infatti, scolpisce pietre recuperate dai cantieri, o scovate lungo gli arenili dei torrenti o semplicemente rinvenute per strada. Uno stile sintetico, insieme arcaico e moderno, modella la pietra, in questo caso arenaria, con effetti di grande eloquenza.Il volto, alto 40 cm, è incorniciato da un’acconciatura geometrizzante, che si alza con un curioso ciuffo sopra l’alta fronte. Un paio di grandi labbra sporge oltre il possente mento, mentre un lungo naso divide gli occhi dallo sguardo fisso in avanti. Un tratto sintetico rivela i muscoli del collo e le potenti arcate delle orbite: non ci sono particolari, né un eccesso di levigatezza. Il volto appare come la testa votiva di una divinità primordiale, di fatto, l’ispirazione sembra proprio venire dagli enormi moiai dell’Isola di Pasqua. Nonostante la fissità ieratica, la scultura è più dolce che monumentale, il suo sguardo è rivolto più all’interno che all’esterno. La pastosità dell’arenaria permette un modellato che pur nella rigidità dei piani consente numerosi passaggi delicati che sembrano riprodurre gli effetti del tempo sulle sculture lasciate all’aria aperta. In questo senso va letto anche il titolo dell’opera Pietre senza tempo, doppia allusione alla materia e allo stile neo arcaico di queste figure. Brancato cerca la materia delle sue opere direttamente nei luoghi in cui esse vivono il loro destino, concentrandosi su quelle scartate dai mastri o abbandonate presso le cave. Questa processualità connette la sua arte direttamente alla natura e al paesaggio, elemento centrale della produzione della strange maggioranza degli artisti siciliani. Nella materia della pietra, nella sua consistenza, Brancato cerca le forme che disvela cavandone questi volti dalle fattezze primitive e dalla grande dolcezza.
La scultura è stata presentata in occasione della mostra Volti e Risvolti tenutasi al Vittorio Emanuele nel dicembre 2006. Nel testo critico dell’evento, Lucio Barbera rivela la singolare prassi seguita da Brancato per realizzare la serie di volti di cui fa parte quest’opera. L’artista, infatti, scolpisce pietre recuperate dai cantieri, o scovate lungo gli arenili dei torrenti o semplicemente rinvenute per strada. Uno stile sintetico, insieme arcaico e moderno, modella la pietra, in questo caso arenaria, con effetti di grande eloquenza.Il volto, alto 40 cm, è incorniciato da un’acconciatura geometrizzante, che si alza con un curioso ciuffo sopra l’alta fronte. Un paio di grandi labbra sporge oltre il possente mento, mentre un lungo naso divide gli occhi dallo sguardo fisso in avanti. Un tratto sintetico rivela i muscoli del collo e le potenti arcate delle orbite: non ci sono particolari, né un eccesso di levigatezza. Il volto appare come la testa votiva di una divinità primordiale, di fatto, l’ispirazione sembra proprio venire dagli enormi moiai dell’Isola di Pasqua. Nonostante la fissità ieratica, la scultura è più dolce che monumentale, il suo sguardo è rivolto più all’interno che all’esterno. La pastosità dell’arenaria permette un modellato che pur nella rigidità dei piani consente numerosi passaggi delicati che sembrano riprodurre gli effetti del tempo sulle sculture lasciate all’aria aperta. In questo senso va letto anche il titolo dell’opera Pietre senza tempo, doppia allusione alla materia e allo stile neo arcaico di queste figure. Brancato cerca la materia delle sue opere direttamente nei luoghi in cui esse vivono il loro destino, concentrandosi su quelle scartate dai mastri o abbandonate presso le cave. Questa processualità connette la sua arte direttamente alla natura e al paesaggio, elemento centrale della produzione della strange maggioranza degli artisti siciliani. Nella materia della pietra, nella sua consistenza, Brancato cerca le forme che disvela cavandone questi volti dalle fattezze primitive e dalla grande dolcezza. “Se, infatti, da un lato è possibile rintracciare riferimenti all’arte negra, qualche cadenza egizia, stimoli provenienti dall’arcaismo etrusco, dal medioevo romanico così come spunti derivati dall’arte khmer, si tratta sempre di suggestioni culturali filtrate dall’intensa sensibilità dell’artista che appare tuttavia, guidato dal sentimento della storia, si che i caratteri di questi volti non trovano referenze convincenti in un tempo storico precisabile, ma appartengono all’uomo senza nome e senza tempo.”[1]. Scriveva così il critico Lucio Barbera nel testo critico del catalogo, interpretando il lavoro di Brancato all’interno dell’oceano della storia dell’arte. Tuttavia, questo volto anonimo, così come tutta la serie, trova degli stringenti riferimenti in due singolari produzioni artistiche del territorio siciliano. Una è il “Castello Incantato” di Filippo Bentivegna (Sciacca, 3 maggio 1888 – Sciacca, 1º marzo 1967) a Sciacca, e l’altro è il Parco Jalari a Barcellona Pozzo di Gotto. Bentivegna è considerato il caso principe dell’outsider art siciliana, egli realizzò un parco di scultore, composto di migliaia di teste, alle falde di Monte Cronio, nel fondo nel quale si ritirò dopo la sua esperienza di migrante negli Stati Uniti. Considerato pazzo, “Filippo delle teste” lavorò al suo giardino incantato dagli anni ’20 del Novecento fino alla sua morte. “Cerco la Grande Madre…Dentro è il seme dell’uomo.”[2] Bentivegna al pari di Brancato, in quanto siciliano, e quindi uomo ancora non completamente moderno, profondamente legato a un paesaggio che è stato solo in parte mutato dall’industrializzazione, in questa opera continua la tradizione millenaria che lega l’arte siciliana alla magia di un territorio multiforme e policentrico, dove la varietà delle pietre e dei volti degli uomini sembra in grado di rappresentare la complessità del mondo.
[1] Giuseppe Brancato: Volti e risvolti, catalogo della mostra a cura di Lucio Barbera, Edizioni Di Nicolò, 2006, p.5.
[2] Alfonso Lentini, La chiave dell'incanto, Pungitopo editrice, Marina di Patti, 1996, p. 13.