Un uomo e una donna in piedi, davanti al fondale, aspettano lo scatto del fotografo. Cogliamo solo le mani e il volto del loro copro, per il resto interamente coperto dagli abiti scuri. L’umo ha le labbra chiuse in una strana smorfia preoccupata, come quella di qualcuno che aspetta la puntura dell’ago medico. La donna ha un volto più disteso, quasi sereno. Non conosciamo l’identità della coppia, tuttavia, il ritratto restituisce non solo la realtà materiale di due abitanti di Tusa, ne propone pure le suggestioni psicologiche, le tensioni emotive.
Un uomo e una donna in piedi, davanti al fondale, aspettano lo scatto del fotografo. Cogliamo solo le mani e il volto del loro copro, per il resto interamente coperto dagli abiti scuri. L’umo ha le labbra chiuse in una strana smorfia preoccupata, come quella di qualcuno che aspetta la puntura dell’ago medico. La donna ha un volto più disteso, quasi sereno. Non conosciamo l’identità della coppia, tuttavia, il ritratto restituisce non solo la realtà materiale di due abitanti di Tusa, ne propone pure le suggestioni psicologiche, le tensioni emotive. Angelino Patti immortala la coppia nel suo studio, intorno agli anni ’30 del Novecento. Non sappiamo neanche l’anno esatto dello scatto. Possiamo supporre, dal fazzoletto bianco tenuto saldamente dalla donna, che sia un giorno d’estate, o diversamente, che la donna sia malata e che debba ricorrere al fazzoletto per una bruta tosse. Tuttavia, la serenità della piccola figura, e la postura retta, fanno pensare che la signora sia in salute. Non solo, il suo braccio forma un deciso angolo retto nel quale l’uomo adagia la grande mano deformata dall’artrosi. La mano e le sue scarpe non mentono. Si tratta di un contadino. Uno dei tanti lavoratori della terra che Angelino Patti, noto come Don Angelino in tutta Tusa, conosceva personalmente. Dall’aria preoccupata dell’uomo possiamo congetturare che non sia stato mai ritratto da una macchina fotografica. La suggestione però, seppur affascinante, non è supportata da alcuna prova. Utilizzano le arcinote categorie barthesiane potremo dire che la sua smorfia è lo studium della foto, ciò che suscita domande e riflessioni, mentre le enormi orecchie a sventola dell’uomo sono il punctum, ciò che colpisce emotivamente. Forse sono il risultato di un cappello a falde larghe premuto per anni sulla testa durante il lavoro sui campi sotto il pico del sole, forse sono soltanto una goffa eredità genetica. Angelino Patti qui ha colto tutto. L’umanità e, insieme, la dignità della coppia, che dialoga con lo spettatore ancora oggi.
Un uomo e una donna in piedi, davanti al fondale, aspettano lo scatto del fotografo. Cogliamo solo le mani e il volto del loro copro, per il resto interamente coperto dagli abiti scuri. L’umo ha le labbra chiuse in una strana smorfia preoccupata, come quella di qualcuno che aspetta la puntura dell’ago medico. La donna ha un volto più disteso, quasi sereno. Non conosciamo l’identità della coppia, tuttavia, il ritratto restituisce non solo la realtà materiale di due abitanti di Tusa, ne propone pure le suggestioni psicologiche, le tensioni emotive. Angelino Patti immortala la coppia nel suo studio, intorno agli anni ’30 del Novecento. Non sappiamo neanche l’anno esatto dello scatto. Possiamo supporre, dal fazzoletto bianco tenuto saldamente dalla donna, che sia un giorno d’estate, o diversamente, che la donna sia malata e che debba ricorrere al fazzoletto per una bruta tosse. Tuttavia, la serenità della piccola figura, e la postura retta, fanno pensare che la signora sia in salute. Non solo, il suo braccio forma un deciso angolo retto nel quale l’uomo adagia la grande mano deformata dall’artrosi. La mano e le sue scarpe non mentono. Si tratta di un contadino. Uno dei tanti lavoratori della terra che Angelino Patti, noto come Don Angelino in tutta Tusa, conosceva personalmente. Dall’aria preoccupata dell’uomo possiamo congetturare che non sia stato mai ritratto da una macchina fotografica. La suggestione però, seppur affascinante, non è supportata da alcuna prova. Utilizzano le arcinote categorie barthesiane potremo dire che la sua smorfia è lo studium della foto, ciò che suscita domande e riflessioni, mentre le enormi orecchie a sventola dell’uomo sono il punctum, ciò che colpisce emotivamente. Forse sono il risultato di un cappello a falde larghe premuto per anni sulla testa durante il lavoro sui campi sotto il pico del sole, forse sono soltanto una goffa eredità genetica. Angelino Patti qui ha colto tutto. L’umanità e, insieme, la dignità della coppia, che dialoga con lo spettatore ancora oggi.“Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano si annida ancora oggi il futuro, e con tanta eloquenza che noi, guardandoci indietro, siamo ancora in grado di scoprirlo. La natura che parla alla macchina fotografica è, infatti, una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente”[1]. Il passaggio dello scritto di Benjamin, citato da Sergio Todesco nell’importante monografia dedicata ad Angelino Patti, mette in luce lo straordinario potenziale del suo lavoro, di cui questo scatto pare tra gli esempi più emblematici. Qui la fotografia è davvero un ipertesto. Osservandola abbiamo informazioni su uno studio fotografico siciliano della prima metà del Novecento, possiamo sapere come e quale distanza, con quale atteggiamento, con quali abiti e in quali condizioni psicologiche una coppia di anziani siciliani si lasciava ritratte dall’obiettivo fotografico. Tuttavia, il dato emotivo e psicologico è assolutamente prevalente, lo sguardo, il corpo, finanche la pelle rugosa dei due personaggi continuano a porre domande allo spettatore che entra in un irresistibile dialogo con la foto, cercando centimetro per centimetro un qualche indizio che chiarisca ciò che è visibile e chiaro ma privo del esplicito conforto di spiegazioni o didascalie.
[1] Walter Benjamin, Piccola Storia della Fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di Massa, Einaudi, Torino, 2009, p. 62.