“C’è una pittura che va formando da tempo la figura del suo pittore, e con la figura, la sua stessa esistenza, io l’ho vista. Questa pittura vive a Messina […]” con queste parole Tommaso Trini, tra i maggiori critici italiani del ‘900, introduceva il catalogo della mostra milanese di Bruno Samperi alla Galleria Aleph del 1989. Gli autoritratti saranno il tema di una costante produzione per tutti gli anni ’80, con esiti stilisticamente diversi quanto interessanti.
“C’è una pittura che va formando da tempo la figura del suo pittore, e con la figura, la sua stessa esistenza, io l’ho vista. Questa pittura vive a Messina […]” con queste parole Tommaso Trini, tra i maggiori critici italiani del ‘900, introduceva il catalogo della mostra milanese di Bruno Samperi alla Galleria Aleph del 1989. Gli autoritratti saranno il tema di una costante produzione per tutti gli anni ’80, con esiti stilisticamente diversi quanto interessanti. In quest’opera Samperi delinea il proprio volto con la consueta urgenza espressiva. La pennellata fluida e veloce sbozza i tratti somatici che compaiono sulla tela come l’errata emulsione di un’istantanea fotografica. Sul fondo bianco il pittore costruisce l’immagine con macchie, gesti e segni di colore che, ben lungi dal sembrare casuali, sono sempre profondamente controllati. Ma non si tratta solo di un riuscitissimo esercizio di pittura tachista, Samperi ritrae se stesso con una straordinaria forza espressiva, carica di drammi e tensioni esistenziali. E’ una sorta di apparizione ectoplasmatica che ben corrisponde al profilo biografico di quest’artista sempre alla ricerca di se stesso e delle verità dell’arte e della vita. L’enorme firma in basso, realizzata in unica continua pennellata semi asciutta, conferma il valore lirico e personale di quest’opera manifesto dal carattere intensissimo. La prolifica serie di autoritratti, numerosa quanto poco conosciuta e ora dispersa in varie collezioni, assume particolare importanza nell’ottica proprio della vita stessa del pittore, sempre avverso alla vetrina della piccola società messinese e dei compromessi del mercato dell’arte. Gli autoritratti di Samperi oltre che una ribadita dichiarazione di esistenza, da porre in relazione con il suo profilo schivo e antiretorico, sono la prova della riflessione continua che l’artista fa intorno alla sua identità e alla sua arte. La serie è, infatti, eclettica nel tono, nello stile e nell’umore, tendenzialmente cupo, ma che non risparmia gli accenti ludici di questo ritratto e di un altro, formidabile, in cui costruisce il suo profilo barbuto con ghirigori di linee intrecciate.
“C’è una pittura che va formando da tempo la figura del suo pittore, e con la figura, la sua stessa esistenza, io l’ho vista. Questa pittura vive a Messina […]” con queste parole Tommaso Trini, tra i maggiori critici italiani del ‘900, introduceva il catalogo della mostra milanese di Bruno Samperi alla Galleria Aleph del 1989. Gli autoritratti saranno il tema di una costante produzione per tutti gli anni ’80, con esiti stilisticamente diversi quanto interessanti. In quest’opera Samperi delinea il proprio volto con la consueta urgenza espressiva. La pennellata fluida e veloce sbozza i tratti somatici che compaiono sulla tela come l’errata emulsione di un’istantanea fotografica. Sul fondo bianco il pittore costruisce l’immagine con macchie, gesti e segni di colore che, ben lungi dal sembrare casuali, sono sempre profondamente controllati. Ma non si tratta solo di un riuscitissimo esercizio di pittura tachista, Samperi ritrae se stesso con una straordinaria forza espressiva, carica di drammi e tensioni esistenziali. E’ una sorta di apparizione ectoplasmatica che ben corrisponde al profilo biografico di quest’artista sempre alla ricerca di se stesso e delle verità dell’arte e della vita. L’enorme firma in basso, realizzata in unica continua pennellata semi asciutta, conferma il valore lirico e personale di quest’opera manifesto dal carattere intensissimo. La prolifica serie di autoritratti, numerosa quanto poco conosciuta e ora dispersa in varie collezioni, assume particolare importanza nell’ottica proprio della vita stessa del pittore, sempre avverso alla vetrina della piccola società messinese e dei compromessi del mercato dell’arte. Gli autoritratti di Samperi oltre che una ribadita dichiarazione di esistenza, da porre in relazione con il suo profilo schivo e antiretorico, sono la prova della riflessione continua che l’artista fa intorno alla sua identità e alla sua arte. La serie è, infatti, eclettica nel tono, nello stile e nell’umore, tendenzialmente cupo, ma che non risparmia gli accenti ludici di questo ritratto e di un altro, formidabile, in cui costruisce il suo profilo barbuto con ghirigori di linee intrecciate. Questa ricerca intorno all’immagine di se stesso si nutre della materia e dello stile dell’Informale da cui proviene il gene indipendente dell’artista tipografo. Gli anni ’50, momento in cui l’Informale s’impose nell’arte europea, corrispondo a una stagione di profonda sfiducia nella razione e nella tecnica dell’uomo, allora al centro della dichiarata accusa di costruire una società completamente disumanizzata, votata all’auto distruzione. A quella stagione concitata di pittura sgocciolante (Pollock) e graffiante (De Koonig) appartiene l’humus di Samperi che, di fatto, con la sua “strepitosa pittura” (Barbera 1989) sembra, in fine, votato solo alla bellezza. Per quanto viscerale e drammatica, la sua arte insegue il delicato equilibrio delle cose belle, gli effetti deliziosi delle armonie e delle corrispondenze di cui la natura è maestra e che per Samperi sarà l’unica vera maestra. Per lui l’arte è principalmente l’uso del colore, che domina con grandissima tecnica, nella sua pittura non esiste disegno, il progetto è abbandonato, tutto scorre e si compone sulla tela come fluido, come energia biologica in grado di lasciare nella materia le tracce di un’esistenza struggente.