La lirica fa parte della raccolta d’esordio Acque e terre (1930), uscita a Firenze per le edizioni di «Solaria». Vento a Tindari, ispirata ad uno dei luoghi d’infanzia del poeta, contiene gli stessi motivi che animano le altre poesie ospitate nel volume, identificabili in una potente nostalgia della terra siciliana. In tutta la raccolta, trasfigurati dal doppio filtro della memoria e dell’invenzione letteraria, personaggi e ambienti che popolano l’autobiografia quasimodiana, a partire dalla figura materna e dalla casa, divengono simboli di un mondo mitico, attinto con una parola carica di timbri magici ed evocativi. Ad assalire il poeta è anche un altro ricordo, quello del caro amico Salvatore Pugliatti, evocato insieme ai compagni degli anni messinesi.
La lirica fa parte della raccolta d’esordio Acque e terre (1930), uscita a Firenze per le edizioni di «Solaria». Vento a Tindari, ispirata ad uno dei luoghi d’infanzia del poeta, contiene gli stessi motivi che animano le altre poesie ospitate nel volume, identificabili in una potente nostalgia della terra siciliana. Dal punto di vista del rapporto con la tradizione poetica, vi si riconoscono gli influssi dannunziani, evidenti soprattutto in certi echi linguistici che rimandano ad Alcyone, misti a motivi pascoliani e alla presenza, evidente in talune asperità, del dettato verghiano. In tutta la raccolta, trasfigurati dal doppio filtro della memoria e dell’invenzione letteraria, personaggi e ambienti che popolano l’autobiografia quasimodiana, a partire dalla figura materna e dalla casa, divengono simboli di un mondo mitico, attinto con una parola carica di timbri magici ed evocativi. Alla ridente serenità di un luogo mitico, il promontorio di Tindari, con i suoi resti di un tempio e di un teatro greco e il suo splendore naturalistico, si oppone Milano, la città evocata ma non esplicitamente citata nei versi, poiché i motivi autobiografici non sono restituiti dalla poesia in termini descrittivi, quanto, piuttosto, concentrati in nuclei simbolici fortemente rivelatori dell’interiorità autoriale. La vita presente, che appare inautentica e arida, è condizione priva di ogni speranza in cui la grandezza del dono ricevuto, la consolazione della poesia, non è strumento di reintegrazione del passato ma conforto, schermo alla tristezza. Il desiderio di morte, che infine afferra l’anima poetante a Tindari, è dunque desiderio di ricongiungimento, riappropriazione mitica delle proprie origini, soffocate da un eccesso di realtà, e della propria essenza smarrita. Ad assalire il poeta è anche un altro ricordo, quello del caro amico Salvatore Pugliatti, evocato insieme ai compagni degli anni messinesi. La dimensione privilegiata, prima che la direzione poetica si apra verso la storia e una dimensione collettiva propria della fase successiva, è ancora quella dell’esperienza individuale.
La lirica fa parte della raccolta d’esordio Acque e terre (1930), uscita a Firenze per le edizioni di «Solaria». Il poeta siciliano aveva pubblicato le prime poesie sulle pagine della rivista grazie all’amicizia con Eugenio Montale e Alessandro Bonsanti, che gli erano stati presentati dal cognato, lo scrittore Elio Vittorini. Alla prima raccolta seguono Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936), che, come i primi versi, sono caratterizzati da una precisa linea di ricerca, quella ermetica, destinata ad avere proprio in Quasimodo uno degli esponenti più illustri e raffinati. Tuttavia, il poeta offre una propria personale interpretazione delle suggestioni e delle sfumature dell’Ermetismo, collocandosi in un versante del tutto originale, come riconosciuto dalla critica. Vento a Tindari, ispirata ad uno dei luoghi d’infanzia del poeta, contiene gli stessi motivi che animano le altre poesie ospitate nella raccolta, identificabili in una potente nostalgia della terra siciliana. Dal punto di vista del rapporto con la tradizione poetica, vi si riconoscono gli influssi dannunziani, evidenti soprattutto in certi echi linguistici che rimandano ad Alcyone, misti a motivi pascoliani e alla presenza, evidente in talune asperità, del dettato verghiano. In tutta la raccolta, trasfigurati dal doppio filtro della memoria e dell’invenzione letteraria, personaggi e ambienti che popolano l’autobiografia quasimodiana, a partire dalla figura materna e dalla casa, divengono simboli di un mondo mitico, attinto con una parola carica di timbri magici ed evocativi. Nel rapporto tra la percezione della realtà e l’universo privato del poeta, la lingua ricorre ad arditi accostamenti analogici, edificando i contorni evanescenti di una visione favolosa, in cui il passato, quasi come un eden perduto, conserva intatto il proprio struggimento, per trasmetterlo ad una condizione presente che non riesce, mai, ad essere all’altezza del tempo trascorso. Il medesimo procedimento agisce in Vento a Tindari, che stabilisce un ponte immaginario tra la terra madre, grembo dell’infanzia e della memoria felice, e l’esilio cui il poeta è condannato. Alla ridente serenità di un luogo mitico, il promontorio di Tindari, con i suoi resti di un tempio e di un teatro greco e il suo splendore naturalistico, si oppone Milano, la città evocata ma non esplicitamente citata nei versi, poiché i motivi autobiografici non sono restituiti dalla poesia in termini descrittivi, quanto, piuttosto, concentrati in nuclei simbolici fortemente rivelatori dell’interiorità autoriale. La vita presente, che appare inautentica e arida, è condizione priva di ogni speranza in cui la grandezza del dono ricevuto, la consolazione della poesia, non è strumento di reintegrazione del passato ma conforto, schermo alla tristezza. Il desiderio di morte, che infine afferra l’anima poetante a Tindari, è dunque desiderio di ricongiungimento, riappropriazione mitica delle proprie origini, soffocate da un eccesso di realtà, e della propria essenza smarrita. Ad assalire il poeta è anche un altro ricordo, quello del caro amico Salvatore Pugliatti, evocato insieme ai compagni degli anni messinesi. La dimensione privilegiata, prima che la direzione poetica si apra verso la storia e una dimensione collettiva propria della fase successiva, è ancora quella dell’esperienza individuale:
Sconvolto dall’esperienza del “male di vivere” e deluso dal contesto sociale - siamo negli anni del fascismo - Quasimodo si chiude in un mondo quasi magico, creato dall’io poetante che riesce ad inglobare la realtà circostante, sono a farne il suo “unico” rifugio. Crea in tal modo una poesia del “fascino”, una poesia che dà spazio ad un’atmosfera inventata di vibrazioni e tensioni estranee al fenomenico, un’atmosfera in cui riescono a liberarsi ed a manifestarsi non solo le emozioni e le impressioni, ma anche le sensazioni. L’io poetante può trasmutarsi nell’oggetto al quale ha dato lui stesso consistenza al di fuori della superficialità del reale. (Musarra 2001, p. 47)
Prima edizione Vento a Tindari
Copertina Acque e terre
Parco letterario Salvatore Quasimodo “La terra impareggiabile”
Ispirato ad uno dei titoli più celebri della vasta produzione quasimodiana, il Parco letterario, sorto da un'idea del figlio Alessandro, si diffonde tra i luoghi della vita e dell'ispirazione poetica dell'autore: dalla città natale Modica a Roccalumera, luogo di origine della famiglia Quasimodo, cui sono collegati Messina, tappa importante della sua formazione umana e artistica, Tindari, le isole Eolie, Siracusa, l'Anapo con Pantalica ed Agrigento. A Roccalumera, in particolare, si può visitare la Torre Saracena citata dallo stesso Quasimodo nella poesia omonima, dedicata al fratello morto e riprodotta su una lapide di marmo posta alla base della torre. Nella città jonica si trova inoltre l'antico quartiere dei pescatori, "u' bagghiu" in dialetto messinese, anch'esso presente nell'immaginario infantile del poeta, che qui trascorreva l'estate. A rivelare il profondo legame con questa terra è, d'altra parte, l'autobiografismo contenuto nei versi che, come nel caso della poesia Vento a Tindari, materializza sulla pagina echi geografici, culturali ed emotivi connessi al tema della memoria e alla proiezione della realtà in una dimensione mitica e ineffabile.