Caratterizzato da uno sperimentalismo linguistico che ne attesta l’unicità nel panorama dei romanzi italiani della seconda metà del Novecento, il romanzo darrighiano racconta, in oltre mille pagine, l’epopea marinaresca di ’Ndrja Cambrìa, racchiusa in quattro giorni e sfaccettata in una coralità di personaggi. Tra flashback e digressioni, in un flusso ininterrotto di immagini e suggestioni mitologiche, Horcynus Orca descrive le avventure del protagonista, «nocchiero semplice della fu regia Marina», nel suo viaggio di ritorno a casa da Napoli a Cariddi, il 4 ottobre 1943, attraverso l’invalicabile Stretto di Messina. La stesura dell’opera impegna l’autore per un tempo lunghissimo, con una gestazione pressappoco ventennale, fondata su un lavoro di continua revisione e correzione che investe non tanto la cornice narrativa, la sua struttura e i suoi motivi ispirativi, quanto la fitta e invisibile trama intessuta tra i singoli episodi che la compongono. Il romanzo, dalla tormentata vicenda editoriale, vede la luce definitivamente nel 1975, per le edizioni Mondadori, ma è preceduto da una variante intermedia, I fatti della fera che, parzialmente pubblicato da Vittorini e Calvino su «Il Menabò» (1960), in chiave embrionale ne contiene e anticipa la storia. Oltre a specifici studi di carattere filologico e linguistico, esistono letture critiche dell’Horcynus connesse al rapporto dell’opera con i luoghi in cui nasce, secondo una mappatura geografica, antropologica e letteraria dello Stretto, e con l’asse temporale che la determina, a ridosso della fine del secondo conflitto bellico. I temi portanti della narrazione, ma anche le caratteristiche e i nomi dei personaggi, rivelano i grandi modelli che fungono da ispirazione alla scrittura. Un posto privilegiato è quello occupato dall’epica greca, sul modello del ritorno per antonomasia, il viaggio di Ulisse nell’Odissea, mentre la presenza verghiana si riconosce attraverso il riflesso de I Malavoglia, sino alla persistenza di un canone occidentale contemporaneo intriso della memoria di Moby Dick di Melville e di un altro Ulisse, quello joyciano.
Caratterizzato da uno sperimentalismo linguistico che ne attesta l’unicità nel panorama dei romanzi italiani della seconda metà del Novecento, il romanzo darrighiano racconta, in oltre mille pagine, l’epopea marinaresca di ’Ndrja Cambrìa, racchiusa in quattro giorni e sfaccettata in una coralità di personaggi. Formule popolari tipiche della parlata dei pescatori siciliani e del loro universo di relazioni si intrecciano, senza soluzione di continuità, ad uno strato linguistico spiccatamente colto e letterario, in una vertiginosa girandola tra registri alti e bassi, costituendo un amalgama espressivo esaltato dall’invenzione di termini del tutto nuovi. L’esito è un vero e proprio codice, parafrasando Marco Trainito (Il codice D’Arrigo, Edizioni Anordest, 2010), tanto affascinante quanto complesso, così come l’intero sistema narrativo, che mescola storia e mito, sogno e ricordo, offrendo un viaggio labirintico tra il resoconto descrittivo dei fatti e una potente dimensione fantastica, ai margini tra l’emergere di segnali dell’inconscio e l’auscultazione silenziosa del mistero di cui è intriso il cuore della realtà. Tra flashback e digressioni, in un flusso ininterrotto di immagini e suggestioni mitologiche, Horcynus Orca descrive le avventure del protagonista, «nocchiero semplice della fu regia Marina», nel suo viaggio di ritorno a casa da Napoli a Cariddi, il 4 ottobre 1943, attraverso l’invalicabile Stretto di Messina. Lungo le sue sponde, l’autore recupera la visione delle acque marine come limite mitico tra la vita e la morte, in un orizzonte metamorfico destinato a popolarsi di creature mostruose, metafora degli abissi della mente umana, perpetuando l’eterna sfida degli uomini con gli elementi naturali, di cui viene mostrato il lato oscuro, infero e terrifico. Il ritorno dalla guerra, dopo l’armistizio, coincide non a caso con la scoperta di un mondo nuovo altrettanto arcano e inquietante, che si staglia sulle macerie materiali e spirituali di un vecchio e rassicurante ordine esistenziale ormai alterato, alla deriva come ’Ndrja, che va incontro alla mutazione della realtà conosciuta sino ad allora e al proprio tragico destino. La stesura dell’opera impegna l’autore per un tempo lunghissimo, con una gestazione pressappoco ventennale, fondata su un lavoro di continua revisione e correzione che investe non tanto la cornice narrativa, la sua struttura e i suoi motivi ispirativi, quanto la fitta e invisibile trama intessuta tra i singoli episodi. Il romanzo, dalla tormentata vicenda editoriale, vede la luce definitivamente nel 1975, per le edizioni Mondadori, ma è preceduto da una variante intermedia, I fatti della fera che, parzialmente pubblicato da Vittorini e Calvino su «Il Menabò» (1960), in chiave embrionale ne contiene e anticipa la storia. Oltre a specifici studi di carattere filologico e linguistico, esistono letture critiche dell’Horcynus connesse al rapporto dell’opera con i luoghi in cui nasce, secondo una mappatura geografica, antropologica e letteraria dello Stretto, e con l’asse temporale che la determina, a ridosso della fine del secondo conflitto bellico. I temi portanti della narrazione, ma anche le caratteristiche e i nomi dei personaggi, rivelano i grandi modelli che funzionano da paradigma per la scrittura. Un posto privilegiato è quello occupato dall’epica greca, sul modello del ritorno per antonomasia, il viaggio di Ulisse nell’Odissea, mentre la presenza verghiana si riconosce attraverso il riflesso de I Malavoglia, sino alla persistenza di un canone occidentale contemporaneo intriso della memoria di Moby Dick e di un altro Ulisse, quello joyciano.