L’autoritratto, non datato, testimonia il grande livello di questo artista, considerato, all’epoca, l’astro nascente della pittura messinese. Scarse sono le notizie biografiche pervenute, così come poche sono le opere sopravvissute. La tela, firmata “Di Bella P. Venise (sic)” risale probabilmente al suo soggiorno Veneziano, attestato intorno al 1902, e testimonia sia la personalità netta e definita di questo artista, sia le sue influenze, in questo caso accostabili alla pittura di Eugene Carriere (Gournay-sur-Marne, 16 gennaio 1849 – Parigi, 27 marzo 1906).
L’autoritratto, non datato, testimonia il grande livello di questo artista, considerato, all’epoca, l’astro nascente della pittura messinese. Scarse sono le notizie biografiche pervenute, così come poche sono le opere sopravvissute. La tela, firmata “Di Bella P. Venise (sic)” risale probabilmente al suo soggiorno Veneziano, attestato intorno al 1902, e testimonia sia la personalità netta e definita di questo artista, sia le sue influenze, in questo caso accostabili alla pittura di Eugene Carriere (Gournay-sur-Marne, 16 gennaio 1849 – Parigi, 27 marzo 1906).L’artista si raffigura con piglio crucciato, labbra serrate, e l’occhio sinistro chiuso. Porta baffi e pizzetto ben curati, e una folta capigliatura scompigliata, da pittore bohémien. La carnagione olivastra, Di Bella era figlio di padre messinese e madre indiana, sembra qui rispecchiare la tensione emotiva, il tormento dell’artista. L’abito è un grande macchia scura, piatta e dai contorni sfumati, su cui spicca il colletto bianco, che è la nota cromatica più alta all’interno di questo quasi monocromo. Di fatto, lo sfondo utilizzato da Di Bella è la sintesi dei colori usati per dipingere la sua figura. L’esito è un’immagine icastica, potente e a tratti inquietante. Forse, la manifestazione di quell’ansia di perfezione, di quella spietata autocritica che gli verrà attribuita[1]. L’autoritratto è una prova del grande talento di Placido Di Bella e della sua attenzione verso specifiche esperienze dell’impressionismo, come quella di Carriere, i cui ritratti possono essere accostati, per intensità e profondità psicologica, a quest’opera. Il particolare dell’occhio chiuso ci fa indugiare in un’ipotesi di lettura simbolica. In mancanza d’informazioni specifiche che possano consentirci di attribuirgli un problema alla vista, non documentato altrove, bisogna tentare di inquadrare il particolare all’interno della lettura che le fonti dell’epoca e gli studiosi hanno dato di lui. L’occhio immerso nell’ombra, chiuso, sembra alludere a una ricerca non completata, a un mezzo, quello della vista e quindi della pittura, di cui ancora non si è completamente impossessato.
[1] Gioacchino Barbera, Prime ricerche sulla pittura a Messina dal 1870 al 1908, in Gli anni dimenticati. Pittori a Messina tra Otto e Novecento, catalogo della mostra a cura di Gioacchino Barbera, Sicania, Messina 1998, p.54
L’autoritratto, non datato, testimonia il grande livello di questo artista, considerato, all’epoca, l’astro nascente della pittura messinese. Scarse sono le notizie biografiche pervenute, così come poche sono le opere sopravvissute. La tela, firmata “Di Bella P. Venise (sic)” risale probabilmente al suo soggiorno Veneziano, attestato intorno al 1902, e testimonia sia la personalità netta e definita di questo artista, sia le sue influenze, in questo caso accostabili alla pittura di Eugene Carriere (Gournay-sur-Marne, 16 gennaio 1849 – Parigi, 27 marzo 1906).L’artista si raffigura con piglio crucciato, labbra serrate, e l’occhio sinistro chiuso. Porta baffi e pizzetto ben curati, e una folta capigliatura scompigliata, da pittore bohémien. La carnagione olivastra, Di Bella era figlio di padre messinese e madre indiana, sembra qui rispecchiare la tensione emotiva, il tormento dell’artista. L’abito è un grande macchia scura, piatta e dai contorni sfumati, su cui spicca il colletto bianco, che è la nota cromatica più alta all’interno di questo quasi monocromo. Di fatto, lo sfondo utilizzato da Di Bella è la sintesi dei colori usati per dipingere la sua figura. L’esito è un’immagine icastica, potente e a tratti inquietante. Forse, la manifestazione di quell’ansia di perfezione, di quella spietata autocritica che gli verrà attribuita[1]. L’autoritratto è una prova del grande talento di Placido Di Bella e della sua attenzione verso specifiche esperienze dell’impressionismo, come quella di Carriere, i cui ritratti possono essere accostati, per intensità e profondità psicologica, a quest’opera. Il particolare dell’occhio chiuso ci fa indugiare in un’ipotesi di lettura simbolica. In mancanza d’informazioni specifiche che possano consentirci di attribuirgli un problema alla vista, non documentato altrove, bisogna tentare di inquadrare il particolare all’interno della lettura che le fonti dell’epoca e gli studiosi hanno dato di lui. L’occhio immerso nell’ombra, chiuso, sembra alludere a una ricerca non completata, a un mezzo, quello della vista e quindi della pittura, di cui ancora non si è completamente impossessato. Il pittore è “guercio”, orbo da un occhio, guarda in basso a destra, forse allo specchio che riflette la sua immagine. Tanto concentrato da apparire truce, Di Bella si raffigura come un artista tormentato, assalito dal dubbio, immerso in un’atmosfera ectoplasmatica, al limite tra la vita e la morte. Sono esiti assai vicini a quelli del già citato Carriere, il cui ritratto di Paul Verlain (1890), potrebbe essere un ipotetico prototipo per questa prova dell’artista messinese. Per la lettura dell’opera può essere utili riportare le parole di Virginio Saccà in occasione della Mostra d’Arte organizzata a Messina nel 1900: “un giovine pieno di studi e di sogni. Un giovine che dipinge come un maestro e che s’impone a quanti sanno che cosa significhi arte […]Di Bella espone in questa mostra un numero assai rilevante di studi: ed ha in tutti un tocco di pennello così pronto, così robusto, così scuro che pochi davvero potrebbero contendergli. Egli ha voluto in questa sua mostra – lo si vede subito – dar prova di ciò che il suo pennello può fare: badate, dico il pennello, non la sua mente: e io lo lodo perché egli con molta modestia ha etto: Eccomi qua; io ho studiato fin ora, mi sono preparato così e così, e mi avvio coi piedi di piombo. Non vi presento un quadro, ma in me c’è la stoffa, c’è il modo, c’è la forza di farlo e lo farò”[2]. Le parole di Saccà restituiscono la complessità e la statura del personaggio, ma vanno lette insieme alle parole di Moleti Galifi in occasione della sua personale organizzata tra il febbraio e il marzo del 1905 al Circolo Artistico di Messina: “In questa sua mostra di lavori, noi vediamo tutta la sua evoluzione che ha formato il pittore. Molti di essi ci dimostrano un’epoca di preparazione, e tutto questo lavoro multiforme non rimarrà certo infecondo. In tutti è addirittura d’una perfezione suggestiva quasi, la correttezza del disegno, la vita delle figure, la scrupolosa distribuzione delle luci, la sinfonia delle tinte d’una tavolozza pensosamente triste.”[3]
[1] Gioacchino Barbera, Prime ricerche sulla pittura a Messina dal 1870 al 1908, in Gli anni dimenticati. Pittori a Messina tra Otto e Novecento, catalogo della mostra a cura di Gioacchino Barbera, Sicania, Messina 1998, p.54
[2] ibidem
[3] ibidem