L’opera di Felice Canonico risulta premiata al concorso indotto dall’Ente Provinciale per il Turismo di Messina nel ’53, all’interno della seconda edizione dell’importante Mostra nazionale di pittura “Città di Messina”, organizzata per il Fondaco da Pugliatti, Vann’Antò e Giuseppe Miligi. Pur riconnettendosi al grande momento del Realismo sociale, di cui Guttuso, presente alla mostra, fu il principale protagonista, la tela di Canonico presenta i caratteri peculiari di questo artista dall’eclettica creatività.
L’opera di Felice Canonico risulta premiata al concorso indotto dall’Ente Provinciale per il Turismo di Messina nel ’53, all’interno della seconda edizione dell’importante Mostra nazionale di pittura “Città di Messina”, organizzata per il Fondaco da Pugliatti, Vann’Antò e Giuseppe Miligi. Pur riconnettendosi al grande momento del Realismo sociale, di cui Guttuso, presente alla mostra, fu il principale protagonista, la tela di Canonico presenta i caratteri peculiari di questo artista dall’eclettica creatività.Come ha giustamente notato Lucio Barbera[1], il suo realismo è diverso da quello praticato in quegli anni, più vicino a istanze nordiche, espressioniste, e curiosamente, anche ai toni bruni della pittura di Sironi del periodo Novecento (La solitudine, 1925). I Fratelli Pescatori sembrano, in realtà, un uomo solo colto in quattro posizioni diverse. Le loro teste ricordano quelle delle sculture dell’isola di Pasqua, potenti e squadrate come loro mani: enorme quella dell’ultimo a destra, nella quale l’unghia rossa richiama il senso tragico della fatica e del lavoro. I loro vestiti, fatti di pittura grezza, grassa e materica, si stagliano sul suolo verde acido, in pendant con le scarpe grosse, che poi non sono nient’altro che macchie nere, sui cui vibra un calzino rosso, e che, è anch’esso un’esplicita macchia di colore. Pure il cane sembra ricoperto del panno rozzo dei pescatori, senza ritrosie offre i suoi occhi spiritati allo spettatore, guardiano docile e, insieme, bizzarro dei quattro monolitici fratelli. Lo sguardo del cane è il punctum del quadro, come direbbe Barthes: l’elemento irrazionale che colpisce lo spettatore. Il quadrupede è l’unico a instaurare un dialogo con chi sta guardando l’opera, gli altri personaggi si oppongono fisicamente al riguardante. Non è difficile cogliere in quello sguardo puntiforme, quasi spiritato, l’ironica constatazione di una lontananza enorme, di una mancanza totale di relazione tra il mondo duro e massacrante dei pescatori e quello dell’arte.
L’opera di Felice Canonico risulta premiata al concorso indotto dall’Ente Provinciale per il Turismo di Messina nel ’53, all’interno della seconda edizione dell’importante Mostra nazionale di pittura “Città di Messina”, organizzata per il Fondaco da Pugliatti, Vann’Antò e Giuseppe Miligi. Pur riconnettendosi al grande momento del Realismo sociale, di cui Guttuso, presente alla mostra, fu il principale protagonista, la tela di Canonico presenta i caratteri peculiari di questo artista dall’eclettica creatività.Come ha giustamente notato Lucio Barbera[1], il suo realismo è diverso da quello praticato in quegli anni, più vicino a istanze nordiche, espressioniste, e curiosamente, anche ai toni bruni della pittura di Sironi del periodo Novecento (La solitudine, 1925). I Fratelli Pescatori sembrano, in realtà, un uomo solo colto in quattro posizioni diverse. Le loro teste ricordano quelle delle sculture dell’isola di Pasqua, potenti e squadrate come loro mani: enorme quella dell’ultimo a destra, nella quale l’unghia rossa richiama il senso tragico della fatica e del lavoro. I loro vestiti, fatti di pittura grezza, grassa e materica, si stagliano sul suolo verde acido, in pendant con le scarpe grosse, che poi non sono nient’altro che macchie nere, sui cui vibra un calzino rosso, e che, è anch’esso un’esplicita macchia di colore. Pure il cane sembra ricoperto del panno rozzo dei pescatori, senza ritrosie offre i suoi occhi spiritati allo spettatore, guardiano docile e, insieme, bizzarro dei quattro monolitici fratelli. Lo sguardo del cane è il punctum del quadro, come direbbe Barthes: l’elemento irrazionale che colpisce lo spettatore. Il quadrupede è l’unico a instaurare un dialogo con chi sta guardando l’opera, gli altri personaggi si oppongono fisicamente al riguardante. Non è difficile cogliere in quello sguardo puntiforme, quasi spiritato, l’ironica constatazione di una lontananza enorme, di una mancanza totale di relazione tra il mondo duro e massacrante dei pescatori e quello dell’arte. La Sicilia, con la sua atavica miseria e la sua arretratezza, costituì il banco di prova generale di un interesse che alla fine degli anni ‘30 e si era manifestato a Milano intorno agli artisti di Corrente e a intellettuali come Elio Vittorini. Il suo romanzo Conversazione in Sicilia (1938-39), di fatto, sarà l’avanguardia di una ricerca nell’atmosfera arcaica ed esotica dell’Isola, che dal 1950, grazie al cinema e alle numerose rassegne d’arte, diverrà uno dei poli culturali della Ricostruzione. Conflitti politici, tragici avvenimenti, come la strage di Portella delle Ginestre (1 maggio 1947), e, soprattutto, il suggestivo patrimonio antropologico e paesaggistico siciliano, divennero il serbatoio iconografico di tanti artisti, non solo siciliani, che trovarono in questa terra il ponte fisico verso il mito mediterraneo. Pittori come Canonico, Guttuso[2] e Migneco consideravano queste incursioni figurative come contributi più ampi a quell’auspicata rinascita culturale che doveva avvicinare le masse alla cultura. In questo senso, Messina giocò un ruolo importante. Guidata da un’élite culturale di grande intelligenza e spessore, tra gli anni ’50 e ’60, divenne teatro di premi, festival, concerti e rassegne di livello nazionale e internazionale, alimentando dibattiti ed esperienze che furono cruciali per gli artisti e per la società messinese tutta. Il grande slancio di quei vent’anni non risolse soltanto all’interno dell’animato dibattito nazionale, le questioni erano profonde e, la qualità con cui vennero affrontate tendevano a renderle paradigma della condizione umana, in un’ottica internazionale che fu ben presto avvertita ben al di là dei confini italiani.
[1] Lucio Barbera, Il re e i pedoni, in Canonico, catalogo della mostra, Messina, 1988, p. 16.
[2] “La strada che si è scelta è la grande strada della pittura che parla degli uomini e delle donne e dei bambini e dei vecchi, ma anche delle loro azioni, della loro vita; del loro ridere de piangere e gridare, la grande strada della pittura sulla quale anche Canonico, messinese, si arrampica con le unghie e coi denti, da povero, piccolo pittore moderno, come me”. Renato Guttuso, testo critico della mostra Felice Canonico, Galleria il Pincio, Roma, 1954, in Renato Guttuso, Scritti, a cura di Marco Carapezza, Bompiani, Milano 2013, p. 47.