Primo testo interamente in italiano, realizzato dopo Nunzio e Bar, La festa è considerato dalla critica come uno spartiacque nella produzione di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che costruiscono un interno familiare isterico e raggelante, declinando un persistente senso di disagio su tre personaggi e la loro grigia quotidianità. L’allestimento scenico essenziale contribuisce, come i dialoghi, scarnificati in battute brevissime, a celebrare un milieu assurdo in cui la drammaturgia, con la propria peculiare cifra, si colloca. Oltre alla coppia Scimone-Sframeli, la terza presenza in scena è quella di Gianluca Cesale. La regia è di Gianfelice Imparato.
Primo testo interamente in italiano, realizzato dopo Nunzio e Bar, La festa è considerato dalla critica come uno spartiacque nella produzione di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che costruiscono un interno familiare isterico e raggelante, declinando un persistente senso di disagio su tre personaggi e la loro grigia quotidianità. Arma affilata per un gioco al massacro fatto del continuo rinfacciarsi episodi distorti e forse inventati, la parola esplora la dimensione mortifera in cui prende corpo il dramma, che ricorre alla scarnificazione della lingua, con battute brevissime, talvolta ridotte ad una sola parola, per celebrare il milieu assurdo in cui la drammaturgia scimoniana, con la propria peculiare cifra, si colloca. Alla percezione di uno stato alterato, quello di un microcosmo relazionale viziato da inganni e senza vie di fuga che non siano illusorie, partecipa l’allestimento scenico, a cura di Sergio Tramonti, che chiude in una scatola buia la realtà sempre uguale a se stessa in cui i personaggi consumano la propria intera esistenza. Padre, madre e figlio aderiscono ciascuno ad un ruolo stereotipico, intessendo appunto un “gioco”, nel senso più squisitamente teatrale, di relazioni cresciute sul terreno franoso del rancore, dell’inettitudine, della frustrazione. La madre, figura assillante che accentua il suo ruolo di vittima, è interpretata da Scimone, con una recitazione controllata che ne mette in rilievo l’atteggiamento dimesso, contrapponendosi all’agitazione esorbitante di Sframeli che, con il ventre prominente e il gesto contratto, fa la voce grossa per mascherare la propria dipendenza e debolezza. Chiude il cerchio il figlio (Gianluca Cesale), protervo, ambiguo, che se ne sta accucciato a muso duro ed è diventato il vero padrone di casa, anche perché è lui a mettere i soldi, oscuramente guadagnati. L’evento cui allude il titolo è l’anniversario di matrimonio della coppia, che, progressivamente, si rivela allo spettatore come pretesto per evocare scene di ordinaria infelicità, scandita dalla rassegnazione toccata in sorte a ciascuno dei componenti di una famiglia sgretolata nelle pieghe di una violenza ancora più devastante perché destinata a non deflagrare mai, ma piuttosto contratta in gesti fissi.
Primo testo interamente in italiano, realizzato dopo Nunzio e Bar, La festa è considerato dalla critica come uno spartiacque nella produzione di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che costruiscono un interno familiare isterico e raggelante, declinando un persistente senso di disagio su tre personaggi e la loro grigia quotidianità. Arma affilata per un gioco al massacro fatto del continuo rinfacciarsi episodi distorti e forse inventati, la parola esplora la dimensione mortifera in cui prende corpo il dramma, che ricorre alla scarnificazione della lingua, con battute brevissime, talvolta ridotte ad una sola parola, per celebrare il milieu assurdo in cui la drammaturgia scimoniana, con la propria peculiare cifra, si colloca. Analizzando l’uso dell’italiano in questa pièce, «la ricerca insistita di una quota asettica, inespressiva», Dario Tomasello scrive: «La tavola della realtà appare inaccettata (almeno nelle regole fondamentali) in favore di un dettato di invenzione deformante, ma in questo dettato Scimone fa scendere comunque il suo umore, il fervido senso del paradosso e della mistificazione al fine di incontrarsi ancora con il vero, però in divenire, nel flusso del suo formarsi». (Tomasello 2009, p.80). Alla percezione di uno stato alterato, quello di un microcosmo relazionale viziato da inganni e senza vie di fuga che non siano illusorie, partecipa l’allestimento scenico, a cura di Sergio Tramonti, che chiude in una scatola buia la realtà sempre uguale a se stessa in cui i personaggi consumano la propria intera esistenza. Padre, madre e figlio aderiscono ciascuno ad un ruolo stereotipico, intessendo appunto un “gioco”, nel senso più squisitamente teatrale, di relazioni cresciute sul terreno franoso del rancore, dell’inettitudine, della frustrazione. La madre, figura assillante che accentua il suo ruolo di vittima, è interpretata da Scimone, con una recitazione controllata che ne mette in rilievo l’atteggiamento dimesso, contrapponendosi all’agitazione esorbitante di Sframeli che, con il ventre prominente e il gesto contratto, fa la voce grossa per mascherare la propria dipendenza e debolezza. Chiude il cerchio il figlio (Gianluca Cesale), protervo, ambiguo, che se ne sta accucciato a muso duro ed è diventato il vero padrone di casa, anche perché è lui a mettere i soldi, oscuramente guadagnati. L’evento cui allude il titolo è l’anniversario di matrimonio della coppia, che, progressivamente, si rivela allo spettatore come pretesto per evocare scene di ordinaria infelicità, scandita dalla rassegnazione toccata in sorte a ciascuno dei componenti di una famiglia sgretolata nelle pieghe di una violenza ancora più devastante perché destinata a non deflagrare mai, ma piuttosto contratta in gesti fissi. Tese sul filo di un passato doloroso e traumatico, dal quale attingere ricordi che frantumano il presente con il loro insopportabile carico di crudeltà, le esperienze di ciascuno dei personaggi si nutrono di quotidiane mortificazioni, esibendo la solitudine profonda che nessuna vana conversazione serve a nascondere. I dialoghi, fatti di domande e risposte su bisogni elementari, attingono ad un repertorio di temi ricorrenti, che sottolineano l’essenza della vita dei personaggi, ancorati al nulla del tempo presente, e scatenano un umorismo straniante e caricato di valenze distruttive. La regia è di Gianfelice Imparato, le musiche di Patrizio Trampetti, regista assistente è Leonardo Pischedda.